Cara Silvia, l'ho letto d'un fiato e mi sembra bello, commosso e intelligente. Quasi un reportage polifonico, in cui l’autore è soltanto uno dei personaggi in gioco. Quella idea poi di una New York "generosa" con gli immigrati rende l’attentato uno scandalo intollerabile.
Ti mando la paginetta su Ground Zero dal mio Diario di un patriota perplesso in Usa (edizioni e/o).
Dopo due giorni dal mio arrivo a New York sono stato a Ground Zero. Chiedevo continuamente a tutti dove fosse - passanti, tassisti, poliziotti - e già da un pezzo Ground Zero stava lì, di fronte a me, in un certo senso invisibile, immensa voragine, spazio perfettamente vuoto, caverna ventosa della metropoli. Migliaia di turisti vanno ogni giorno a visitare quello "che non c’è", tutti ammutoliti di fronte a un cantiere sterminato dietro la rete di protezione. In quel momento non pensi alle Torri Gemelle come simbolo del capitalismo, della hybris e grandeur americana, come espressione tangibile e urtante dell’arroganza imperiale, etc. (lo scrittore tedesco Sebald ha detto che le costruzioni imponenti, grandiose, in qualche modo "chiedono" la loro rovina…). No, pensi a questa città - colpita al cuore - alla sua coesistenza miracolosamente pacifica di culture, lingue, popoli, razze, idiosincrasie. D’accordo, sarà pure un miracolo precario, effimero, sempre sul punto di implodere, e forse tutti si sorridono continuamente perché hanno segretamente paura dell’altro, però di fatto non implode mai. E tra l’altro New York è diventata un luogo quasi irenico, dove sulla metropolitana alle due di notte, e in quartieri periferici, ti capita di incontrare ragazzine sole, che magari leggono un libro. Non viene in mente nessun alta metropoli del mondo dove quella strana creatura che è l’uomo, socievolmente insocievole, sempre oscillante tra tendenza alla cooperazione e istinti predatori, sia riuscito a realizzare una utopia civile così straordinaria. In quei mesi mi è anche capitato di pensare che se i terroristi dell’undici settembre avessero abitato qui, a New York, e in particolare a Brooklyn, per qualche mese, gli sarebbe passata la voglia di colpire la città. Ogni giorno infatti avrebbero incontrato neri, italiani, arabi, giamaicani, ebrei, impegnati in una fittissima - convulsa ma pacifica - rete di traffici e scambi reciproci. Mica dico che a Brooklyn è eliminata ad un tratto la povertà e l’oppressione sociale. Ma quello resta per me uno spettacolo commovente. In questo senso, come dicevo, New York senza i suoi abitanti sarebbe un incubo a cielo aperto. E’ bella solo grazie a chi ci abita, a questa incredibile fusione tra gli spazi metropolitani e la turbinosa folla multicolore – solitaria e non – che li percorre.
Grazie di cuore, Filippo. Anche per questo sentimento di New York, che mi corrisponde.
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